Parlando di autismo, ci si addentra in un terreno accidentato, principalmente per le definizioni, la fluidità dell'ambito e i tanti preconcetti che questo delicato ambito comportano. L'autismo, infatti, si configura come "disturbo" rispetto ad uno sviluppo più o meno "standardizzato", uniforme e lineare, dello sviluppo neurologico nella persona, termine anche questo di per sé magmatico ma che riconduce alle caratteristiche di chi ne è interessato che si riflettono sul comportamento in termini individuali e sociali, dissimile rispetto ad una presunta norma. Sebbene i comportamenti umani non possano essere imbrigliati in cornici omologate, quanto si parla di disturbi dello spettro autistico si fa comunque riferimento a situazioni in cui, attraverso una diagnosi, è riconoscibile un allontanamento da canoni codificati entro i quali ciascun individuo procede in un percorso di autonomia e di socialità che lo porta poi ad inserirsi in una sfera in cui la persona umana raggiunge precise capacità. Nell'ambito di questi disturbi, quindi, ci si muove in campo medico, psichiatrico, ma anche psicologico e sociosanitario sia per quanto attiene alla ricerca dei fattori determinati ma anche dell'approccio di "cura", intesa in modo ampio, ovvero della messa in atto di strategie volte ad incidere positivamente sulle persone che ne sono interessate, ai fini dell'inclusione sociale. Accanto all'ambito medico, si è progressivamente affermata l'azione di enti e strutture che accompagnano le persone con questi disturbi e le loro famiglie in un iter complesso che punta all'autonomia, all'inserimento sociale e, progressivamente, lavorativo. Se ha senso parlare delle persone interessate da disturbi dello spettro autistico come "pazienti", termine generico utilizzato in maniera indistinta in ambito medico e che in qualche modo descrive il rapporto tra operatori del settore e persone in "cura", dove cura ha un significato profondo e complesso, fuori da questa cornice, già nell'ambito del supporto garantito dagli organismi che a vario titolo si occupano del benessere e dell'inserimento sociale delle persone con una qualche disabilità, è alquanto inappropriato. Le persone con disabilità, infatti, possono essere in ottima salute, oppure affette da qualche patologia, né più né meno che qualsiasi altra persona. Definire "paziente" chiunque di noi al di fuori della sfera medica è inappropriato e ingiustificato, visto che è il contesto a determinare questa specifica condizione. Spiace constatare, invece, che quando ci si avvicina anche con buoni propositi al tema dell'autismo, nonostante le numerose campagne di informazione e di sensibilizzazione, non si riesca ad uscire fuori dallo stereotipo della patologia, veicolando un modo di vedere le persone interessate da particolari disturbi come "malati". Accade così che nel linguaggio quotidiano e soprattutto in quello giornalistico e dell’informazione, si ricorra troppo spesso ad una terminologia clinica per raccontare ad esempio esperienze di inserimento lavorativo e non solo di ragazzi e ragazze con autismo. Nessun dubbio sulle migliori intenzioni, ma il termine "pazienti" per definire i giovani coinvolti in progetti costruttivi di autodeterminazione, porta a nostro avviso a pensare alle persone con autismo come "malati", con il rischio di vanificare anni di intenso lavorio culturale volto a migliorare il rapporto della società nel suo complesso con il mondo dell'autismo, nell'ottica dell'inclusione reale, non teorica. Abbattere gli steccati, infatti, passa inevitabilmente per tutto quell'apparato linguistico e simbolico che orienta i nostri comportamenti nei confronti dell'altro, di chiunque altro, e ci pone nelle condizioni di avere atteggiamenti diversi, manifestai anche attraverso un uso appropriato di termini che descrivono una condizione senza mistificazioni. Ci rendiamo conto, invece, che è necessario vigilare quotidianamente per rendere veramente inclusivo il percorso di autonomia di una persona con disabilità che, se pur "sana come un pesce" si trova a dover assumere agli occhi della società la veste del "paziente", cosa di per sé non negativa ma fuorviante nei confronti della propria condizione esistenziale.
Valeria Bruccola - settore scuola Le Ali dei Pesci