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La notizia del tredicenne con autismo ricoverato a seguito dei colpi inferti da agenti di polizia, non può certamente lasciarci indifferenti. Ciò che particolarmente colpisce nella dinamica dell’accaduto, è il fatto che a richiedere l’intervento delle forze dell’ordine sia stata la madre di Cameron, nel tentativo di placare una crisi di ansia particolarmente acuta. Una richiesta d’aiuto che si è trasformata in ferite, sia reali che simboliche.

Al di là di valutazioni di carattere etico, una considerazione si impone: l’importanza di attivare adeguate azioni di informazione su alcuni aspetti legati alla disabilità per operatori e funzionari delle istituzioni, finalizzate a migliorare pratiche e modalità di intervento. Si tratta dunque, ancora una volta, di porre l’accento sul nesso indissolubile tra conoscenza, informazione e acquisizione di prassi adeguate.

Nonostante gli enormi sforzi fatti dalla cultura medica divulgativa, le pratiche informative e la riflessione sui temi della disabilità sembrano infatti ancora troppo relegate alla ristretta cerchia di studiosi o di persone coinvolte. Eppure la “questione disabilità” non si può confinare in un terreno ristretto e avulso dai contesti: essa non è e non può essere relegata solo alla dimensione medica, ad una diagnosi per intenderci.

La questione, pena un’eccessiva quanto fuorviante medicalizzazione delle persone, va ripensata (ed è stata ripensata) come un complesso intreccio di elementi culturali, ambientali e relazionali in cui giocano un ruolo importantissimo anche la scienza e la tecnologia. Quanto una barriera architettonica incide sull’autonomia di una individuo in caso di difficoltà motorie? Quanta importanza può assumere il rifiuto sociale nello sviluppo di una persona? Quanto una politica poco attenta a rimuovere gli ostacoli materiali e culturali può determinare una condizione di discriminazione nei confronti di alcuni soggetti? È evidente che il livello medico si intreccia indissolubilmente con quello ambientale, culturale, socio-politico e, non da ultimo, con quello giuridico.

Una certa sensibilità culturale unitamente all’interesse scientifico hanno indubbiamente contribuito in molti Paesi allo sviluppo di una dimensione giuridica a tutela dei soggetti disabili nell’ottica di promuoverne il benessere psico-fisico. Eppure c’è ancora tanto da fare in un’instancabile dialettica tra istituzioni, società civile e soggetti coinvolti a vari livelli (famiglie, scuole, ecc…).

La cosiddetta disabilità mette spesso a dura prova la concezione del tempo e dello spazio così come li abbiamo culturalmente strutturati, imponendoci di ripensare i ritmi frenetici in cui spesso siamo avviluppati e di ristrutturare gli spazi che abbiamo ereditato. Non è questa la sede per trattare una questione così complessa, ma è questa forse la delicata sfida: il continuo equilibrio che dobbiamo ristabilire tra convinzioni culturali e modalità d’intervento, alla luce dei cambiamenti dettati dagli stili di vita, dai paradigmi scientifici e dalle innovazioni tecnologiche.

Molte delle informazioni sull’autismo che hanno caratterizzato il Novecento, ad esempio, sono state inadeguate e in alcuni casi fuorvianti, frutto del terreno culturale in cui si sono formate e foriere a loro volta di un certo modo di percepire l’autismo. Ma, seppur con fatica, l’ambito della ricerca pedagogica e medico-scientifica ha consentito di disporre oggi di tecniche diagnostiche e conoscenze che, seppur non ancora definitive ci consentono di codificare sia forme di interventi riabilitativi da parte di educatori specializzati sia prassi di comportamento adeguate alla portata di tutti, in un’ottica di circolarità tra specialisti e contesti familiari, educativi e sociali (si pensi alle iniziative legate all’autism friendly). Ed è in questo senso che riteniamo importante e auspichiamo l’impegno anche da parte delle istituzioni di creare una sorta di alfabeto di base che consenta a chi lavora nella dimensione pubblica di avere strumenti conoscitivi e operativi adeguati per affrontare anche situazioni simili a quelle del caso Cameron (e non solo). Non si tratta di rendere un agente di polizia uno specialista al pari di un neuropsichiatra, ma di attivare una cultura della conoscenza e dell’informazione capace di far operare con maggiore consapevolezza e di aprire pratiche riflessive di maggiore respiro.

L’attenzione al significato delle parole, proprio come i soggetti con autismo ci impongono di fare, dovrebbe tradursi in attenzione al significato e alla portata del nostro agire, del nostro ethos.

Cosa si cela dietro la richiesta di intervento da parte delle forze di polizia di fronte alle urla di un tredicenne rimasto solo? O dietro la richiesta di un genitore che segnala alla comunità l’autismo del proprio figlio attraverso un fiocco blu? E ancora, cosa mette in luce la protesta dei genitori che rifiutano che il test sierologico COVID-19 venga somministrato solo ai loro figli prima del rientro a scuola? Forse proprio il bisogno di creare una società educante, accogliente, capace di risposte che non creino uno iato tra individui e istituzioni; capace di ri-conoscere (nell’accezione di conoscere nuovamente e non di etichettare) dietro un simbolo un bisogno comunicativo di condivisione. Ancora una volta livello istituzionale e livello culturale si intrecciano indissolubilmente Da qui l’importanza dell’agire politico e della scuola. La tutela dei soggetti con disabilità deve sempre essere declinata come opportunità di crescita, scevra da inutili forme di medicalizzazione o, ancor peggio, di pietismo. Non si tratta tanto di pensare un’opportunità di crescita rivolta solo ad alcuni soggetti, ma della crescita di tutti noi.

Laura La Manna, settore comunicazione per Le Ali dei Pesci